This interview was originally published on i-D Italy.
Nel suo libro di debutto "Come Get Your Honey", il fotografo e artista tedesco Samet Durgun celebra con sguardo onesto e autentico la comunità berlinese di rifugiatə queer.
“There is only a queer, divine dissatisfaction, a blessed unrest that keeps us marching and makes us more alive than the others,” con queste parole di Martha Graham, una delle più grandi danzatrici e coreografe statunitensi del Novecento, apre Come Get Your Honey,libro di debutto del fotografo tedesco di origini turche Samet Durgun. Parole che introducono con orgoglio la narrazione di Samet, incentrata sulle storie di persone queer e non-binaryrifugiate e richiedenti asilo che vivono a Berlino.
Le loro sono storie che lasciano trasparire sacrificio, dolore e una fortissima volontà di emergere dall'indifferenza e superare le difficoltà con le quali si trovano a fare i conti ogni giorno. E sono proprio i racconti quotidiani delle vite di queste persone, immersi una fredda e grigia Berlino, a essere al centro del libro di Samet, ritratti con il suo stile delicato ed emozionale e la sua magnifica capacità di flirtare con luci, ombre e colori.
Samet ha voluto dare spazio alle storie di queste persone a lui vicine per comunicare il bisogno, comune a lui e loro, “di essere compreso”, per narrare, narrarsi e rispecchiarsi in percorsi che lui stesso ha dovuto percorrere e per dare voce a una minoranza della minoranze a Berlino (persone LGBTQIA+ rifugiate e richiedenti asilo) che prova ad affermarsi e farsi largo all’interno del complesso e contraddittorio tessuto urbano, sociale e culturale della città.
Ciao Samet, presentati! Ciao! Sono nato in Turchia e sono di radici abcase. Prima di arrivare a Berlino ho studiato a Istanbul e recentemente ho frequentato da ricercatore l'Università delle Arti di Berlino (UdK). Le mie opere sono apparse in vari media tra i quali Huck, GQ, LFI di Leica, Halle4 di Deichtorhallen Hamburg, e sono state esposte al Museo della Fotografia di Berlino. Come artista cerco di raccontare delle storie partendo dalla domanda “e se la fotografia fosse più ascoltare che vedere?”.
Nell'estate del 2021 ho pubblicato una biografia intitolata Come Get Your Honey sul mio legame con i rifugiati queer e richiedenti asilo di Berlino. L'obiettivo del libro è quello di ampliare ciò che comprendiamo sulla fotografia di persone che hanno identità multiple e storicamente oppresse, sfidando il potere e le dinamiche di relazione tra “artista” e “soggetto”. Mi sforzo di rappresentare tutti come esseri umani complessi nella loro interezza, pur essendo consapevole dei limiti della rappresentazione.
Quando hai capito che la fotografia era il medium ideale per raccontare la tua storia e quella dei tuoi soggetti? Guardando indietro, ora mi rendo conto che la fotografia mi ha aiutato ad uscire dalle trame della mia vita. Tante delle storie che ho raccontato a me stesso, spesso non erano nemmeno vere. È molto facile definirci attraverso le nostre identità e le esperienze vissute e fissarci su di esse. E nel momento in cui lo facciamo, tendiamo a escludere un'esperienza molto più ricca che la vita ci offre.
Quindi la fotografia mi aiuta a cogliere il mondo così com'è, e a guardare le persone che incontro—anche se sono persone che frequento spesso—e i luoghi che visito—anche se sono le strade che percorro tutti i giorni—con un’altra prospettiva.
Il tuo nuovo libro Come Get Your Honey ci porta dentro la comunità dei rifugiati LGBTIQIA+ berlinesi. Com’è nata l'idea di lavorare a questo progetto? Sono un artista che vive a Berlino e che è diventato tedesco come immigrato di prima generazione. Sono nato in Turchia, i miei bisnonni ci arrivarono dal Caucaso come rifugiati e vissero in isolamento almeno fino alla mia generazione. Sono agnostico, queer e sono stato cresciuto da una madre single. Anche se spesso è stato difficile sentirmi a casa e al sicuro ho sempre cercato un’auto-realizzazione. Con Come Get Your Honey volevo esprimere il mio bisogno di essere compreso raccontando storie di persone alle quali mi sentivo vicino.
Alcuni anni fa ho stretto amicizia con rifugiati e richiedenti asilo gender non-conforming, transgender e queer che vivevano a Berlino. Ho un profondo rispetto per le persone le cui identità sono così intricate e stratificate al punto che la resilienza e la bellezza diventano invisibili. Mentre ascoltavo le loro storie, queste mi sembravano estremamente familiari. Ero molto felice di poter incontrare persone con le quali mi sentivo a mio agio rispetto alla maggior parte di quelle che ho incontrato in tutta la mia vita. Eppure ognuno aveva origini, esperienze e sogni per il futuro diversi. Ho pensato: formano l'immagine della comunità queer incredibilmente diversificata che ho sempre saputo esistesse.
Come sei entrato in contatto con i soggetti delle tue fotografie? Alcune persone chiave della comunità mi hanno aiutato ad entrare in contatto con altre persone. La prima persona che ho incontrato e fotografato è stata Prince Emrah, rifugiata di genere non-binario del Turkmenistan, danzatrice del ventre, studentessa di beauty e benessere. Una figura straordinaria che ora posso chiamare amica. Lei è anche la madrina di un collettivo d'arte performativa che fornisce spazio e sostiene artisti queer richiedenti asilo e rifugiati. Dall'inizio della nostra amicizia ho avuto modo di supportare il collettivo attraverso le mie fotografie, e allo ho potuto mettere in pratica il mio approccio artistico.
Nella tua bio su Instagram poni a chi legge la seguente domanda "E se la fotografia fosse più una questione di ascoltare, piuttosto che di vedere?” Da dove parte questa riflessione e qual è la tua risposta? Solo nel 2021 gli esseri umani hanno già prodotto e consumato trilioni di immagini. C'è pochissimo tempo per riflettere su ciò che distratti continuiamo a consumare in tale abbondanza. Questo succede perché la fotografia di oggi è troppo legata al “guardare”. Vorrei che si scoprissero connessioni più profonde partendo dalla domanda “chi l'ha fatto, e perché?”. Di recente ho avuto la possibilità di elaborare questa risposta nel saggio che ho scritto per Halle4 (magazine del museo di arte e fotografia Deichtorhallen Hamburg N.d.A.).
Con i soggetti del tuo libro condividi l'esperienza migratoria e identitaria. Quanto e come la il tuo vissuto personale ha influenzato il tuo lavoro? Per quanto questo libro parli di migrazione e queerness, le trame sottostanti sono la connessione e la rappresentazione, due temi che mi stanno a cuore. Devo però specificare che sono venuto a Berlino da immigrato dopo aver trovato un lavoro, mentre le persone nel libro sono rifugiati e richiedenti asilo e questo rappresenta per loro una sfida molto più dura.
Oltre ai corpi che raccontano ognuno la propria storia, sullo sfondo la presenza della città di Berlino è forte nei suoi dettagli più minimali (piante, giardini, finestre, edifici, interni di case, ecc.). Perché hai voluto inserirla nel tuo progetto e cosa rappresenta per te Berlino? In questo caso Berlino gioca un ruolo cruciale nelle vite delle persone che ci abitano, che ci siano nate o meno. Pensa alle attività quotidiane, alle amicizie, alla politica, alle opportunità che esistono in questa metropoli. Così ero interessato a capire come le persone si sentissero nel contesto della città e volevo riflettere su questo. È un modo per mostrare la mia soggettività.
Quali altre difficoltà di integrazione si trova a dover affrontare una persona migrante o rifugiata della comunità LGBTIQIA+ in una società ancora profondamente conservatrice? Partendo dalle storie che le persone hanno condiviso con me ho capito che i problemi che i rifugiati e richiedenti asilo LGBTQIA+ si trovano a dover affrontare sono essenzialmente due. Il primo è il tempo che passa per l'acquisizione dello status di rifugiato. Alcuni richiedenti asilo aspettano addirittura anni per ottenere l'approvazione, e intanto devono convivere con la paura di essere espulsi dal paese in qualsiasi momento. Durante questo processo l’identità di genere e il background dei richiedenti asilo viene messa in discussione dalle autorità. Come ha affermato in un’intervista la mia amica Farah Abdi (donna somala, trans e nera autrice ad attivista): “I dipendenti del governo che interrogano le persone e valutano il loro caso dovrebbero avere un background simile o almeno essere istruiti sulle storie che si trovano ad ascoltare”.
Il secondo problema è l'accesso ai posti di lavoro. La maggior parte delle persone arriva qui lasciandosi tutto alle spalle. Trovare lavoro è uno dei modi migliori per responsabilizzare le persone, è la base principale per iniziare a ricostruirsi una vita. È semplicemente impossibile realizzare i propri piani e sogni in un nuovo paese se si resta bloccati nei piccoli aiuti governativi, specialmente se si è una persona rifugiata trans e nera.
Che importanza ha e ha avuto per te il concetto di “comunità” in un’epoca che sembra dominata dall’individualismo? Circondandomi di persone a cui mi sento molto legato ho modo di entrare in contatto con una coscienza più amplia della mia. Gli individui prosperano se messi di fronte alle somiglianze e differenze reciproche.
Credi che Come Get Your Honey possa considerarsi una sorta di manifesto politico? In tal senso, qual è il messaggio che vorresti lanciare? Potrebbe essere un manifesto emotivo. Voglio neutralizzare tutto ciò che è politicizzato. Il mio messaggio piuttosto è: guarda negli occhi chi ti sta difronte e rifletti sull'effetto che ti fa.
A un certo punto del libro si legge "Ho scelto l'arte… per proteggermi". Cosa hanno significato per te, per il tuo essere e per la tua ricerca di libertà l'arte e in particolare la fotografia? Quella citazione è di un amico rifugiato di genere non binario malese, e mi ha commosso perché era un ottimo modo per dire: "sono molto più della mia identità che appare all'esterno, del mio aspetto o del mio trucco”. Scelgo l'arte perché è la cosa più vicina alla libertà.
Pensi che il contesto cosmopolita berlinese possa essere il contesto ideale per accogliere migranti LGBTIQIA+ o si tratta di un’inclusività solo di facciata? Berlino, con la sua storia e il suo presente, è un luogo importante per le persone queer. È in grado di offrire sacche di libertà a coloro che desiderano cercarle. Ma bisogna essere chiari con il fatto che nessun posto è perfettamente sicuro per loro. Quando l’essere queer è accompagnato anche alla migrazione o l’essere rifugiati, le sfide diventano più grandi ma, ironia della sorte, anche meno visibili.
Quali sono, se ci sono, i contesti, le reti, le strutture che possono offrire uno spazio sicuro a questa comunità? Il governo sostiene la comunità per le esigenze abitative e sanitarie di base. Ci sono parecchie ONG che aiutano la comunità a costruire il loro caso per acquisire lo status di rifugiato e trovare una casa per le persone a rischio. Uno dei pochissimi dormitori per rifugiati queer in Europa si trova a Berlino. Ci sono ristoranti, club, bar e collettivi gestiti da persone queer che accettano, amano e abbracciano la comunità e sono aperti a conoscerne le particolarità.
Quali altri progetti hai per il futuro? Vorrei continuare a riflettere sul libro confrontandomi con più persone possibili, sia in forma di interviste che attraverso l’organizzazione di mostre. Queste opportunità mi aiuterebbero a spostare lo sguardo oltre la fotografia e a esplorare storie libere da trame predefinite.
Crediti
Testo: Marco Frattaruolo Fotografie: Samet Durgun
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